Illustrazione per il racconto di Federica Bosi pubblicata sulla rivista Terre di Mezzo.
La golosa | di Federica Bosi
Mi chiamo Federica, ho quindici anni e sono grassa. Mia mamma è preoccupata, dice che dobbiamo fare qualcosa,che non è possibile che due persone magre ne facciano una grassa. (Me). Dice che lei non è mai stata grassa, che quando si è sposata pesava quarantatré chili; era alta un metro e sessanta e mangiava il pane, la pasta e tutto il resto. Dice che è una questione di metabolismo, dice, che a forza di mangiare schifezze mi sono rovinata lo stomaco e adesso non dimagrisco più.
Un giorno mi ha portata dal medico, mia mamma. Che poi non era proprio un medico. “Andiamo dalla dietologa” mi ha detto quando è venuta a prendermi a scuola. “Oggi non mangiamo” ha aggiunto. Ma lei un panino, dal benzinaio, se l’ha mangiato. L’ho vista io. Quando è andata a pagare il pieno, si è nascosta dietro l’espositore dell’arbre magique, ha ingoiato il carboidrato ripieno senza masticare.
Anche la dottoressa ha detto che sono grassa, troppo grassa. Mi ha mostrato un depliant con sopra disegnata una tabella. “Tu sei qui” mi ha detto indicando la zona rossa, “e dovresti essere qui”. Dovrei essere nella zona verde e invece sono in quella rossa. Ma io nella zona rossa non ci sto male, riesco a mangiare un bauletto del Mulino Bianco tutto in una volta. Parto dalla fetta con la crosta e mangio quelle che vengono dopo, in ordine, quando arrivo all’altra crosta vuol dire che sto per finire. Ci vuole metodo.
I miei compagni mi chiamano focamonaca, così, tutto attaccato. “Focamonaca, passami la cartella”, “Focamonaca, sei così grassa che mi occupi il posto”, mi dicono. Anche il professore di educazione fisica mi chiama così, si avvicina e mi dice nell’orecchio: “Focamonaca, alza quelle gambe”. Io ci provo ad alzarle, ma gli ostacoli sono troppo alti e non li riesco a saltare.
Tutti vogliono che dimagrisca, anche mio padre. Da piccola mi portava alle feste di pensionamento dei suoi colleghi, mio padre lavora in banca e i suoi colleghi vanno sempre in pensione. Appena arrivati alla festa mio papà mi lasciava la mano, andavo al banchetto del buffet e iniziavo a mangiare. C’erano dei salatini buonissimi a forma di omino, con sopra appiccicati i granelli di sale grosso. Ne pescavo una manciata, poi mi sedevo e li mangiavo con calma mentre mio padre parlava con i colleghi. Avevo le gambe corte e dondolavo i piedi avanti e indietro colpendo con i talloni il fondo della sedia, a ogni sforbiciata mangiavo un omino. Finiti quelli, passavo alle patatine di mais gialle e tonde e alle San Carlo e a quelle rigate e alle focaccine con l’oliva verde sopra e alle pizzette, che erano le mie preferite. Potevo mangiarne dieci o venti una dopo l’altra, senza stare male. Quando sono cresciuta mio padre non mi ha più portato alle feste, mamma mi ha detto che qualcuno si è lamentato, dicevano che mangio troppo.
Non m’importa se sono grassa, voglio bene alla mia pancia. Quando sto seduta scivola sulle cosce e arriva fino a metà femore. Ogni tanto, quando sono a letto, sollevo la maglia del pigiama e ci affondo il palmo della mano: sembra pasta per fare il pane.
Non so perché tutti vogliano essere magri, a me le persone magre non piacciono. C’è una ragazza alla mia scuola che è troppo magra: “È anoressica” mi ha detto Silvia, una mia compagna. Mi ha detto che si chiama Veronica e che mangia un cetriolo a mezzogiorno, e basta. Io non so come si possa vivere mangiando un cetriolo al giorno, che poi a me neanche fanno impazzire i cetrioli. Veronica è talmente magra che non si può mettere i jeans, nessuna cintura glieli tiene su, mette solo i fuseaux e pure quelli le stanno larghi. Quando parlano di Veronica le mie compagne si fanno serie e guardano in basso: “Era così bella”, dicono. Ma io mica me la ricordo Veronica prima che diventasse così magra. L’ho raccontato a mia madre, le ho detto che a scuola c’è una ragazza tanto magra che non riesce a mettersi i jeans, lei mi ha risposto che non corro di questi rischi.
Da qualche giorno mia mamma ha chiuso a chiave la dispensa. Ha comprato un mobiletto basso, di legno, ha messo dentro tutta la roba da mangiare e poi l’ha chiuso a chiave. È rimasto soltanto un po’ di zucchero, nel barattolo di fianco al tè. Ieri pomeriggio avevo fame, ho preso il burro dal frigo, l’ho tagliato a fettine e ho versato sopra una cucchiaiata di zucchero. Poi avevo ancora fame, ho preso un po’ di farina e l’ho mangiata con lo zucchero che avanzava, metà farina e metà zucchero. Avevo ancora fame, così ho provato a forzare la serratura del mobiletto. Sono andata in bagno per prendere una forcina, di quelle che teniamo nella scatola bianca di Mykonòs, vicino all’asciugacapelli. Quando mi sono avvicinata allo specchio ho visto la faccia sporca di farina e le labbra incrostate di zucchero, ho pensato a Veronica e agli omini ricoperti di sale grosso. Tutto il burro mi è risalito su per la trachea, è arrivato in bocca e l’ho vomitato nel lavandino. Tutto. Sono scoppiata a piangere, piangevo tanto forte che mia mamma mi ha sentita dall’ingresso, quand’è tornata. È corsa in bagno con il cappotto addosso e le borse della spesa ancora in mano. “Cos’è successo” mi ha chiesto, io non riuscivo a parlare tanto che piangevo. Ha visto il vomito bianco nel lavandino, mi ha abbracciato la testa e ha detto “Finalmente”. Solo questo, e mi ha baciato i capelli.